STORIA DEL PANE
La storia del pane va di pari passo con la storia dell’uomo e della sua evoluzione. Pur essendo di per sé un alimento povero, è stato spesso considerato simbolicamente come essenza del benessere. A testimonianza del forte legame che l’uomo ha avuto e ha con questo alimento rimangono le opere d’arte di molti artisti che lo hanno descritto come elemento centrale delle rappresentazioni di tavole imbandite.
Inizialmente il pane era semplicemente una sorta d’impasto di acqua e farina che veniva posto al sole per la fase d’essiccazione; fase d’essiccazione che, nel periodo del Neolitico, fu affinata utilizzando pietre riscaldate come supporto all’impasto e ceneri roventi come copertura.
Come si può notare, mancava una fase essenziale a far sì che il pane dell’epoca si potesse avvicinare alle forme ed al sapore del pane che oggi conosciamo, ovvero la fase della lievitazione.
Una fase, quella della lievitazione, che avvenne solo dopo qualche secolo, e precisamente nel 2500 a.C., nell’antico Egitto, lungo le rive del fiume Nilo. È interessante sapere che l’utilizzo della tecnica di lievitazione è stata frutto di una scoperta casuale che segnò per sempre l’evoluzione della produzione del pane. La storia ci tramanda che, durante un’inondazione del Nilo, la farina conservata lungo le sue sponde venne a contatto con l’acqua e che le condizioni di temperatura, di umidità, nonché l’insemenzamento microbico naturale, determinarono la formazione di microrganismi che, moltiplicandosi, contribuirono all’alterazione dell’aspetto, rigonfiandolo. Questo processo naturale contribuì ad ottenere un prodotto la cui digeribilità, il cui sapore e la cui conservabilità risultarono di gran lunga migliori rispetto al pane prodotto e consumato fino ad allora.
La tecnica di lievitazione fu in seguito adottata e personalizzata dalle popolazioni che utilizzarono prodotti reperibili alle varie latitudini, come ad esempio il succo d’uva per i Greci o l’orzo fermentato (birra) per i Galli.
Ma anche il pane, nell’arco dei secoli, conobbe un periodo buio, che corrispose alla caduta dell’Impero Romano e al conseguente dominio delle popolazioni del nord poco inclini all’agricoltura.
Solo con il Medioevo ed il Risorgimento l’arte panificatoria riprese vigore, ma con essa comparvero anche le prime forme di sofisticazione.
Alla metà del ’600 circa, con l’avvento del lievito di birra, ci fu una un’accesa disputa tra i fornai italiani, al seguito di Maria De’ Medici, forti assertori dell’utilizzo di questo tipo di lievito, ed i fornai francesi che viceversa amavano utilizzare il lievito madre. La disputa si fece talmente aspra che il re decise di convocare medici di sua fiducia per stabilire se effettivamente il lievito di birra potesse essere nocivo alla salute. Il responso di questi fu univoco, bocciarono il lievito di birra definendolo pericoloso per la salute. Ma il fatto che il re, Maria De’ Medici ed i Grandi della Corte mangiassero unicamente il pane con lievito di birra, di fatto bollò la questione a favore dei fornai italiani.
La vera rivoluzione si ebbe nel XVIII e XIX secolo, quando le scoperte scientifiche e l’evoluzione industriale diedero i presupposti per la produzione panificatoria dei nostri giorni.
I passaggi più salienti dello sviluppo nel settore della panificazione possono riassumersi in tre fasi:
- passaggio dai mulini a palmenti a quelli a cilindri, che diedero la possibilità di ottenere una farina maggiormente raffinata;
- introduzione delle impastatrici meccaniche e dei forni elettrici, che agevolarono non di poco la fase di lavorazione;
- avvento del lievito industriale, che consente l’uso dell’impasto diretto e quindi una maggiore praticità.
In Italia la materia prima per la produzione del pane, al contrario di quanto si è successivamente verificato nei tempi moderni, non era il grano tenero, bensì il cereale tipico dell’area mediterranea ovvero il frumento duro. Ancora oggi nelle regioni meridionali dell’Italia, la Sardegna, la Sicilia, la Puglia e la Calabria è invalsa l’abitudine di produrre pane impiegando come materia prima una farina derivata dalla macinazione del frumento duro, comunemente chiamata rimacinata.
Esempi di pani tipici di queste aree sono il pane di Altamura (Puglia), di Matera (Basilicata), di Cutro (Calabria) ed il Carasau, caratteristico della Sardegna.
PANE E PANETTIERI NELL’ANTICA ROMA
Tra i vari alimenti dell’antica Roma, il pane è uno dei più documentati dalle fonti letterarie, da affreschi e bassorilievi che ne rappresentano le fasi di preparazione e la vendita, e perfino dalle pagnotte carbonizzate, trovate fra le rovine di Pompei, che, analizzate, hanno rivelato i loro segreti. Da Plinio il Vecchio sappiamo che il pane fu conosciuto relativamente tardi dai Romani, abituati a consumare focacce non lievitate e polta, una densa zuppa a base di cereali selvatici, leguminose e, quando era disponibile, carne. Il cereale più apprezzato era il farro, mentre segale e avena non erano molto stimate e l’orzo, addirittura, era ritenuto degno solo di schiavi e soldati.
Il primo tipo di frumento usato per la produzione del pane fu, dunque, il farro, dai cui chicchi, leggermente abbrustoliti per liberarli dalla pula e macinati, si otteneva la farrina (da cui il termine “farina”, poi passato a indicare il prodotto della macinazione di qualunque cereale). Attorno alla fine del V secolo a.C. comparvero nuovi grani duri e teneri, probabilmente originari della Sicilia e dell’Africa, di qualità superiore e più facilmente liberabili dalla pula, che consentirono un rapido miglioramento della panificazione rendendo focacce e pane meno duri e acidi. L’uso dei mulini agevolò la macinazione e i progressi nelle tecniche di setacciatura consentirono di differenziare le qualità di farina e di semola.
Il pane romano, generalmente, era noto per la sua durezza, dovuta tanto alle farine di qualità scadente (che assorbono meno acqua rispetto a quelle migliori) quanto alla scarsa quantità e qualità del lievito impiegato (preparato una volta l’anno al tempo della vendemmia, con mosto d’uva e pasta di pane).
Esistevano, tuttavia, numerosi tipi e formati di pane, a seconda dei differenti usi, impasti e metodi di cottura.
Con farina di qualità superiore (siliga) si produceva il panis siligineus. A partire dal modo in cui veniva setacciata la farina, si avevano panis cibarius, secundarius, plebeius, rusticus.
Sorta di gallette che si conservavano a lungo erano il panis militaris castrensis (riservato ai soldati) e il panis nauticus (per i marinai); piuttosto duro era anche il panis autopyrus (integrale), per non parlare del panis furfureus, destinato … ai cani!
Un tipo più morbido, ma poco diffuso, era il panis parthicus, detto anche aquaticus in quanto spugnoso e in grado di assorbire una maggiore quantità d’acqua.
Tra i diversi tipi d’impasto, quelli in uso nelle zone rurali includevano leguminose, ghiande, castagne e altri elementi “poveri”, mentre ne esistevano di più costosi e raffinati a base di spezie, latte, uova, miele, olio: un pane di lusso era l’artolaganus, con miele, vino, latte, olio, pepe e canditi.
I vari metodi di cottura davano origine al panis furnaceus (cotto al forno), all’artopticus (cotto in casa sotto una campana), al subcinerinus o fucacius (cotto sotto la cenere) e al clibanicus, una focaccia cotta sulla parete esterna di un vaso arroventato.
Esistevano pani di forma allungata e pagnotte rotonde, con incisioni a croce per favorirne la divisione in quattro parti (quadrae, da cui panis quadratus).
Man mano che le tecniche di macinatura e setacciatura della farina e di preparazione e cottura del pane si andavano complicando, la produzione si trasferì dall’ambito familiare a quello “industriale”, ad opera di artigiani specializzati (secondo Plinio, a partire dal 171 a.C.). Il nome pistores, in origine riservato ai servi adibiti alla triturazione in mortaio dei grani di farro, passò a designare i veri e propri fornai, che all’inizio erano principalmente liberti o cittadini di bassa condizione sociale. I panettieri ottennero in seguito privilegi e immunità da parte dell’amministrazione pubblica e perfino un contributo dallo Stato per avviare la loro attività. Crearono una propria corporazione, il collegium pistorum, e giunsero a stipulare proficui contratti di fornitura del pane alle autorità per le distribuzioni gratuite al popolo. Un fornaio, quindi, poteva anche fare fortuna, come accadde, per esempio, al liberto Marco Virgilio Eurisace, il cui sepolcro, a Porta Maggiore, “racconta”, nei rilievi del fregio, le fasi della panificazione: dalla macinatura e setacciatura della farina, all’impasto, alla fabbricazione e cottura al forno dei pani. Un monumento particolare per celebrare una delle professioni più antiche e popolari.